di Giovanni Sorge

L’annuncio di Trump di trasferire l’ambasciata statunitense a Gerusalemme riconoscendola come capitale (solo) d’Israele ha provocato reazioni critiche – anche dall’Europa, fautrice della soluzione di due stati. Ma non tutti in Israele condividono il plauso di Netanyahu. Ad esempio il movimento Combatants for Peace vede israeliani e palestinesi battersi insieme per una soluzione pacifica a cui molti di loro credono, essendo passati attraverso esperienze di trasformazione che il documentario Disturbing the peace di Stephen Apkon e Andrew Young, presentato allo Human Rights Film Festival di Zurigo, trasmette con persuasività – direi quasi contagiosa. “The first peace we need to disturb is our own”, ha ricordato Apkon, ed è questo il primo passo per superare le logiche – della guerra e della propaganda – che, per giustificare l’annientamento del nemico, anizitutto lo disumanizzano. Sicché in quest’opera magistrale che interseca ritratti di donne, uomini ed ex combattenti, inserti di fiction e materiale d’archivio e d’attualità, il Leitmotiv è la trasformazione interiore e la realizzazione – per riprendere le parole di una donna palestinese che piange i figli uccisi delle madri ‘nemiche’ – che “il sangue è sempre sangue, non ha due colori”. Non si tratta di forgiveness, ha detto Apkon, ma di riconoscere ciò che ci accomuna in quanto esseri umani. In un panel successivo, l’ex militare israeliano Avi Buskila (manager di Peace Now) ha ricordato il crescente miglioramento di rapporti di Israele con l’Egitto, un tempo fra i suoi più acerrimi nemici, per sostenere come la pace non sia un’utopia, ma un processo continuo. Per raggiungerla, ha detto All Abu Awwad, fondatore di Taghyeer (Cambiamento) “non c’è bisogno di milioni di persone, ma di un piccolo gruppo di leaders. Ma oggi abbiamo politicanti, non political leaders”.
Giunto alla terza edizione, lo Human Rights Film Festival (http://www.humanrightsfilmfestival.ch) ha presentato una ventina di film dall’America, India, Medio Oriente, Egitto e Messico dedicati ad attivisti, medici e normali cittadini che “manifestano responsabilità politica con coraggio incrollabile anche mettendo in gioco la loro stessa vita”, come ricorda la direttrice Sascha Lara Bleuler. Emblematico in questo senso il coraggio di Eva Orner che, con una telecamera nascosta, testimonia le condizioni brutali cui sono soggetti i rifugiati in due centri di accoglienza australiani in un documentario, Chasing Asylum, definito dall’Herald Sunone of the most important documentaries ever made in this country”. Anche The Poetess di Stefanie Brockhaus è consacrato al coraggio femminile, quello della poetessa saudita Hissa Hilal, divenuta ‘pericolosamente’ popolare per aver vinto una competizione televisiva sino allora dominata dagli uomini. D’altronde, anche la satira politica può significare il rischio di una condanna a morte, per questo il chirurgo e – dal 2011 – attivista egiziano Bassem Youssef, accolto con standing ovation alla proiezione di Tickling Giants che Sara Taksler gli ha dedicato, vive in esilio negli USA, dopo che il suo show televisivo (seguito da 30 milioni di spettatori) è stato sospeso nel 2014.
Grande trepidazione ha poi accolto l’economista bengalese e premio nobel per la pace Muhammad Yunus, l’ideatore del microcredito e infaticabile promotore del “social businness”, che ha presentato Powerless, un documentario (di Deepti Kakkar e Fahad Mustafa) incentrato sull’accesso all’elettricità nelle metropoli indiane. Ha infine scosso gli animi They call us monsters (di Ben Lear) dedicato a tre detenuti adolescenti accusati di omicidio, che tematizza la complessa questione giuridica relativa al sistema giudiziario e carcerario californiano. In collegamento skype, Elizabeth Calvin dell’Human RIghts Watch ha ricordato la componente razziale del problema (la gran parte dei detenuti sono di colore) e affermato: “Guardiamo al sistema elvetico come a un modello, ma la strada da percorrere è ancora lunga”.