Berna è stata l’ultima tappa della carriera diplomatica di Cosimo Risi. In chiusura del suo mandato abbiamo colto l’occasione per tratteggiare un breve bilancio sull’attività svolta, accennare al ruolo del diplomatico e chiedere un’anticipazione sulle prospettive future.


Giunto al termine del suo mandato è il momento di abbozzare, seppur a caldo, un bilancio di questa sua esperienza. Con quale animo lascia la Svizzera?
Ho lasciato l’incarico il 13 gennaio 2016 con animo sereno, anche perché il testimone passa in buone mani. In due anni e mezzo ho concentrato quanto abitualmente si compie in un periodo di quattro. Ho inserito il turbo, a volte sbandando ma sempre puntando la meta: tenere alto il livello dei rapporti italo-svizzeri. Qualche riconoscimento l’ho ricevuto.

Quali sono i risultati che può archiviare come positivi?

La conclusione del pacchetto fiscale. Scambio automatico delle informazioni in materia fiscale, riconoscimento dello status dei lavoratori frontalieri e loro imposizione, regime da applicare a Campione d’Italia, discussioni sull’apertura dei mercati finanziari. Quando arrivai a Berna, nessuno osava neppure sognare che saremmo riusciti a tanto.

Quali quelli invece negativi, oppure semplicemente non ottenuti?
La trattativa fiscale resta sospesa su alcuni punti. Una pausa inevitabile date le circostanze, ma che avrei preferito evitare.

Cosa le ha dato la Svizzera: sul piano professionale, ma anche su quello umano?
Sul piano professionale l’esperienza è stata conclusiva della mia carriera. Forse vale il detto che l’ultimo amore come il primo non si scorda mai. Mi ha dato soprattutto la consapevolezza di misurarmi con la diplomazia bilaterale. Nella mia carriera infatti, tranne l’uscita iniziale, ho sempre praticato la diplomazia multilaterale. E assicuro che sono due mondi assai diversi per procedure e tempi d’attuazione. Sul piano personale il senso di compiutezza. Con una sola domanda che so retorica: perché la pizza costa così tanto?

Le ha tolto qualcosa?
Mi ha tolto la possibilità di giocare a tennis all’aperto ogni volta che volevo.

Nel suo ruolo di Ambasciatore lei ha seguito dall’interno la delicata, e a volte tesa trattativa che ha portato all’accordo sottoscritto a Milano nel febbraio 2015. L’inizio di un percorso lungo il quale ci sono ancora parecchie insidie…
Le insidie ci stanno, senza dubbio, ma c’è pure la volontà delle parti di superarle.

Come valuta l’accordo sul regime fiscale per i frontalieri? Dalle prime razioni sembrerebbe scontentare tutti.

Posso capire certe reazioni: alcuni temono che dovranno versare di più al fisco. Si consideri un altro aspetto: si è definito lo status di lavoratore frontaliere. Non è cosa da poco dal punto di vista giuridico e soprattutto sociale. Si conservano migliaia di posti di lavoro.

In generale, dal suo osservatorio, come viene percepita la comunità italiana in Svizzera?
La considerazione è ottima. Ovunque ho incontrato italiani o doppi cittadini inseriti anche in posizioni eminenti. Conforta il fatto che la rete consolare spenda pochissimo per l’assistenza agli indigenti.


Nelle relazioni fra Italia e Svizzera, su cosa porrebbe l’accento?
Sulla vicinanza. Un buon vicino è meglio di un parente lontano. Questo è particolarmente vero nelle relazioni fra i nostri paesi.

Lei è un attento osservatore delle dinamiche internazionali. Come vede, in prospettiva, il ruolo della Svizzera nel cuore di un’Europa che stenta ad assumere una sua dimensione politica?
La Svizzera sta negoziando una soluzione “euro-compatibile” con l’Unione europea riguardo all’applicazione della modifica costituzionale del 2014. L’aggettivo “euro-compatibile” è divenuto d’uso comune, lo si cita pure nell’intesa fiscale con l’Italia. Noi sosteniamo questa soluzione, anche se al momento ignoriamo quando e come interverrà. La Svizzera è un partner essenziale dell’Unione e tale deve restare.

Durante il suo mandato la rete consolare ha subito un’ulteriore ristrutturazione. Le circoscrizioni si sono geograficamente ingrandite, il personale si è ridotto o comunque non è aumentato e c’è il timore che penalizzati siano i servizi ai connazionali. Un timore infondato?

Finora la rete ha retto il colpo, non abbiamo notizie di seri disservizi, anzi qualcuno è migliorato o in via di miglioramento. Più del numero degli uffici – siamo comunque il paese che ne ha di più nella Confederazione – preoccupa il calo delle vocazioni. Il rialzo del franco non incoraggia quanti sono retribuiti in euro ed a cifre pressoché costanti.

Avvicinandosi al termine della sua carriera diplomatica, come vede l’evoluzione del ruolo dell’ambasciatore: in generale e nel contesto dell’Unione europea?
Quando entrai alla Farnesina alla fine degli anni settanta, mi si disse subito che il diplomatico era destinato a scomparire, in quanto i dirigenti politici s’incontravano direttamente nei fori multilaterali. Dopo quaranta anni stiamo ancora qui. Le relazioni internazionali si complicano e le società hanno bisogno di persone che riescano ad interpretare i fenomeni con un buon bagaglio professionale. La creazione del SEAE, il servizio diplomatico europeo, apre nuove prospettive al nostro lavoro. In alcuni posti la Delegazione UE può sostituire le Ambasciate nazionali.

Questo governo sembra puntare molto su una diplomazia con funzioni commerciali. Come si dovrebbe espletare in concreto?
La diplomazia può e deve avere una funzione commerciale, pur restando appunto funzione diplomatica e cioè volta al complesso dei rapporti fra i paesi. Per il commercio puro ci sono altre agenzie deputate.

Lei ora rientra al Ministero. Nel suo futuro, cosa l’attende?
Il ritorno alla pratica accademica che non ho mai abbandonato, anche se ho dovuto alleggerirla durante la permanenza all’estero. Insegnare e scrivere sono formidabili esercizi per mettersi in discussione.