di Kathryn Bigelow


Cinquant’anni fa, nel 1967, in piena epoca di battaglie per i diritti civili da parte degli afroamericani (Martin Luther King sarebbe stato ucciso nel '68 sul balcone del Lorraine Motel di Memphis), nel ghetto nero di Detroit ebbe luogo una rivolta scatenata da una retata della polizia in un bar dove si vendevano alcolici senza permesso. Il governatore del Michigan inviò la Guardia Nazionale a sedare la rivolta, e il presidente Lyndon Johnson gli fece dare man forte dall'esercito. L'episodio paradigmatico di quel tumulto fu il sequestro di un gruppetto di giovani uomini neri e di due ragazze bianche all'interno del Motel Algiers: un episodio di brutalità da parte della polizia (con il fiancheggiamento di alcuni militari) molto noto negli Stati Uniti, lo è invece molto meno nel resto del mondo.
Ha il ritmo dei tre atti di un respiro, il film di Kathryn Bigelow: si inspira, si trattiene il fiato, e si espira.
Nel primo si racconta la scintilla che fa scoppiare la rivolta, il suo propagarsi, si conoscono i pezzi di un mosaico che si comporrà a formare una figura terribile nel secondo, quello che racconta gli eventi dell'Algiers Motel, con un gruppo di ragazzi neri (e due ragazze bianche) torturati per ore da tre poliziotti razzisti e sadici alla ricerca di un inesistente cecchino, nel corso di una notte che farà due vittime, tutte e due con la pelle nera.
Nel terzo, si butta fuori l'aria, si segue quel che è successo dopo, la fine che hanno fatto quei protagonisti, un processo che assolverà i tre agenti bianchi a dispetto di ogni evidenza, la rassegnazione cupa delle vittime delle sevizie rimaste senza giustizia.