Oltre 65 milioni di persone nel mondo sono state costrette a lasciare le proprie case per sfuggire alla carestia, ai cambiamenti climatici e alle guerre. È il più grande esodo umano dai tempi della Seconda Guerra Mondiale.
Girato nel corso di un anno carico di eventi drammatici, seguendo la straziante catena di vicissitudini umane, il film diretto da un artista poliedrico come il dissidente cinese Ai Weiwei, racconta con grande espressività visiva, l’epica migrazione di popoli, spaziando in 23 Paesi tra cui Afghanistan, Bangladesh, Francia, Grecia, Germania, Iraq, Israele, Italia, Kenya, Messico e Turchia.
Human Flow è la testimonianza della disperata ricerca, da parte di queste persone, di un porto sicuro, di un riparo, di una giustizia. Dal sovraffollamento dei campi profughi ai pericoli delle traversate oceaniche fino alle barriere di filo spinato che proteggono le frontiere, i profughi reagiscono al doloroso distacco con coraggio, resistenza e capacità di adattamento, lasciandosi alle spalle un passato inquietante per esplorare le potenzialità di un futuro ignoto.
Condivisione, umanità, sono parole d’ordine che risaltano comunque dal lavoro di Ai, che fluisce con un ritmo ben calibrato, che alterna luoghi e volti, tragedie e momenti di alleggerimento, ponendo l’attenzione su un tema centrale del problema, spesso dimenticato dal nostro sguardo eurocentrico: l’universalità della questione, la sua dimensione mondiale che coinvolge trasversalmente etnie, religioni, generazioni, classi sociali.
Non fosse che per questo, Human Flow è un buon antidoto alla grettezza di chi guarda il suo orticello senza meditare sul proprio albero genealogico, senza dover arrivare alla storia nazionale.