di Fabrizio Macrì*

(Cliccando sul link sottostante, potete leggere il medesimo articolo direttamente da La Rivista in cui è possibile visualizzare i grafici inserenti all'articolo www.ccisweb.com/rivista/2017/ottobre)


A fronte delle tesi di quanti ritengono che l’Italia debba uscire dall’Euro per recuperare la competitività perduta, magari attraverso la leva della svalutazione monetaria, l’analisi dei dati storici ISTAT prova che tra il 1998 ed il 2016, le aziende italiane esposte alla concorrenza internazionale hanno fatto tesoro delle condizioni di cambio stabile ed hanno mantenuto se non migliorato la loro posizione competitiva nel Mondo.

Come testimonia infatti il grafico 1 l’export italiano complessivo è passato da un valore assoluto di Euro 220 Miliardi nel 1998 a 417 Miliardi nel 2016 con un unico anno di arretramento nel 2009 in occasione della crisi finanziaria internazionale.
Tra il 2009 ed il 2016 inoltre il balzo in avanti del nostro export è stato poderoso:
- l’aumento nel settore dei mezzi di trasporto è stato di 18 Miliardi, da 29,5 a 47,5 Miliardi (+61%)
- nel settore agroalimentare è passato da 20 a 31 Miliardi di Euro (+55%)
- nel comparto chimico le esportazioni sono aumentate da 18 a 27,5 miliardi (+53%)
-l’export del comparto tessile e abbigliamento è passato da 34 a 48 Miliardi (+ 41%)
-di 21 Miliardi l’aumento nel comparto dei macchinari, da 55 a 76 Miliardi di Euro (+ 38,2%)
-nel settore metallurgico l’aumento è stato di 12 Miliardi, da 32 a 44 (+ 37,5%)

In termini relativi la posizione competitiva dell’Italia nel Mondo dimostra una sostanziale tenuta e un leggero miglioramento, se paragonata all’andamento dei paesi occidentali tradizionalmente diretti concorrenti del nostro Paese. Come dimostra il grafico 2 l’Italia era nel 2001 (ad Euro appena introdotto) l’ottavo esportatore mondiale alle spalle degli altri membri del G7 ad eccezione della Cina, già allora al sesto posto in classifica.

Le stesse cifre dimostrano che l’Italia, ottavo esportatore al Mondo nel 2001 si collocava all’ultimo posto per valore delle esportazioni tra i Paesi del G7, come dimostra il Grafico 3.

Nel 2016 (grafico 4) l’Italia era nona nella classifica assoluta dei maggiori paesi esportatori al Mondo ed arretra quindi di una posizione rispetto ad un quindicennio fa nella stessa classifica.

Tuttavia, mentre la nostra industria esportatrice ha subito, come tutti i paesi avanzati, l’imponente emersione delle grandi economie asiatiche (Cina, Hong Kong e Corea del Sud in modo particolare), ha comunque migliorato il proprio posizionamento relativo rispetto a quasi tutti i suoi partner occidentali con l’eccezione di Germania e USA (gli unici due grandi paesi occidentali che tra il 2012 ed il 2016 hanno fatto registrare un tasso di crescita dell’export superiore a quello italiano). L’Italia ha però scavalcato in classifica il Regno Unito scivolato in decima posizione ed è cresciuta più di Francia, Paesi Bassi e Giappone, mentre il Canada è sparito dopo 15 anni, dalla top 10 dei maggiori paesi esportatori. L’Italia è quindi ora il quinto e non più il settimo paese esportatore tra i membri del G7 come dimostra il Grafico 5.

Tra il 2009 ed il 2016 è anche cambiata progressivamente in meglio la composizione merceologica delle nostre esportazioni. Mentre il peso percentuale sul totale esportato dei prodotti semilavorati o beni di consumo a basso valore aggiunto è rimasto sostanzialmente lo stesso (48,45% nel 2009 e 48,52% nel 2016), la quota percentuale dei beni esportati strumentali, a maggiore intensità tecnologica è nettamente aumentata, da 42,99 a 49,73%).
A nostro parere, questo fenomeno conferma che con la moneta unica e in un contesto di crescente concorrenza internazionale, sebbene i settori tradizionali del Made in Italy legati allo stile di vita, dall’agroalimentare, alla moda al turismo facciano per fortuna registrare degli incrementi molto consistenti, il Paese sta spostando verso l’alto la propria specializzazione produttiva, verso settori cioè in cui il peso del prezzo nella decisione di acquisto gioca un ruolo inferiore rispetto a qualità, affidabilità tecnologica e servizi post-vendita.

Politiche di sostegno all’export e obiettivi di sviluppo
Se questi risultati sono stati raggiunti in una fase in cui la proiezione economica internazionale del Paese non è stata certo una priorità dell’agenda politica, una fase in cui è stato sfiorato il default nel 2011, e in cui sono stati interrotti importanti processi di riforma a causa delle cronica debolezza e litigiosità delle maggioranze di governo, ci sembra di poter affermare che, se adeguatamente accompagnata da politiche economiche mirate, l’industria nazionale e la crescita potrebbero trarre grande beneficio dai processi di globalizzazione in atto.
La definizione delle politiche di sostegno all’internazionalizzazione delle imprese passa a nostro modo di vedere dalla definizione di 2 priorità strategiche:
- aumentare il numero di aziende esportatrici in modo da estendere l’impatto sull’industria nazionale del trend positivo della domanda estera nei settori trainanti del Made in Italy;
- favorire tramite le esportazioni la crescita dei settori ad alta intensità tecnologica con il duplice scopo di:
• trattenere ed attirare manodopera qualificata e ben remunerata
• creare un humus di imprese e talenti ad alto tasso di innovazione in grado di attirare capitali di rischio esteri su attività industriali italiane.

Gli interventi funzionali a queste 2 priorità potrebbero essere i seguenti:
- ribaltare le logiche promozionali tipiche dei soggetti pubblici e privati ma anche dei criteri di redazione dei bandi regionali e camerali preposti a finanziare attività di sostegno all’export, favorendo un’impostazione demand driven e non supply driven; la scelta delle azioni di penetrazione commerciale e la conseguente assegnazione delle risorse, dovrebbe cioè prima di tutto partire da una conoscenza delle tendenze della domanda nelle sue varie componenti e dei criteri di funzionamento della distribuzione dei mercati target, invece che essere definita arbitrariamente in Italia secondo logiche strettamente legate all’offerta;

- restituire un ruolo al sistema camerale nelle politiche di internazionalizzazione tenendo conto del forte radicamento territoriale della rete delle Camere di Commercio Italiane all’Estero (CCIE), funzionale ad uno sviluppo dell’export conforme alla domanda e della capacità di coinvolgimento sui territori italiani delle Camere di Commercio (CCIAA) funzionale ad un coinvolgimento di un maggior numero di imprese nei processi di internazionalizzazione, (anche le più deboli e meno attrezzate);

1. integrazione funzionale della rete ICE con quella delle CCIE secondo 2 criteri di fondo:
A. assegnare all’ICE attività di:
• definizione delle strategie nazionali di espansione commerciale
• promozione fieristica
• attrazione degli investimenti (attività tipicamente prive di profittabilità per chi le realizza)
B. assegnare alle CCIE attività di:
• assistenza individuale alle imprese
• consulenza di market development ed apertura sedi commerciali o industriali (attività remunerative importanti per strutture private come le CCIE);

2. integrazione geopolitica della rete ICE con quella delle CCIE, da un lato rafforzando l’ICE sui mercati emergenti e di frontiera in cui le imprese non possono operare senza un sostegno pubblico date le condizioni di elevato rischio paese e dall’altro lasciando maggiore spazio di manovra alle CCIE sui mercati maturi dove l’iniziativa privata può operare con maggiore facilità;

3. concentrare le risorse promozionali su progetti tesi a favorire le esportazioni in settori ad alta intensità tecnologica e innovazione. Questa misura ha ampi margini di realizzazione se si pensa che a fronte del raddoppio delle risorse promozionali tra il 2014 ed il 2016 passate da 65 a 135 milioni di Euro (grafico 4), la quota percentuale di risorse destinate alla meccanica ed elettronica è passata dal 21% al 17,5% del totale, mentre le risorse destinate al settore agroalimentare sono passate da una quota percentuale di 14,7 nel 2014 ad una di 27,6 nel 2016 e quelle destinate al settore moda dal 22,5 al 28,5 (grafico 6). Un approfondimento sui potenziali benefici di quest’ultima misura è contenuto nel paragrafo successivo.

Un modello virtuoso per l’Italia dal punto di vista della capacità di integrare funzioni pubbliche e private per il raggiungimento di un obiettivo strategico per il Paese, come la sua proiezione internazionale, è rappresentato dalla Germania. La Repubblica Federale, infatti, dispone di un ente pubblico (GTAI: German Trade and Invest) che svolge mansioni di studio ed indirizzo strategico e si serve in modo continuativo e regolare della rete privata (ma riconosciuta dal Governo tedesco) delle Camere del Commercio Estero nel Mondo (Deutsche Aussenhandelskammern) per gli aspetti operativi relativi a missioni, partecipazioni a fiere e servizi di business development.
La Germania è il terzo esportatore al Mondo ed è l’unico Paese occidentale, oltre agli Stati Uniti ad aver avuto un tasso di crescita delle esportazioni superiore a quello dell’Italia negli anni del nostro boom di vendite all’estero compresi tra il 2009 ed il 2016.

Questo squilibrio nell’investimento di risorse promozionali a sostegno dei settori merceologici dei beni di consumo, appare ancora più inopportuno, se si tiene conto del peso percentuale dei settori merceologici sul totale del valore dell’export (Grafico 8).

I comparti degli apparecchi elettrici, dei macchinari e dei metalli che insieme pesano per il 33% sul totale delle nostre esportazioni, intercettano il 17,5% delle risorse promozionali, mentre l’agroalimentare che pesa per l’8% sul totale delle esportazioni, intercetta il 27,6% delle risorse promozionali.

Promozione delle esportazioni e attrazione di capitali di rischio
Una politica di sostegno all’export oculata e destinata a favorire lo sviluppo dei settori a maggiore intensità tecnologica potrebbe aumentare la capacità dell’Italia di attrarre investimenti, in particolare capitali destinati a finanziare attività industriali innovative.
Il mercato italiano soffre strutturalmente di mancanza di liquidità, non soltanto sul fronte delle PMI che faticano ad accedere ai prestiti bancari, ma anche nel segmento delle imprese innovative che nascono da attività in start-up ad alta intensità di ricerca e sviluppo.
Il mercato svizzero del venture capital degli investimenti in attività imprenditoriali high tech ha un valore di circa 500.000.000 di Franchi, di ca. 5 volte superiore al valore del mercato italiano.
Favorire quindi lo sviluppo delle esportazioni di prodotti ad alta intensità tecnologica, concentrando le risorse promozionali disponibili in questo comparto, faciliterebbe il consolidamento dell’industria high tech italiana e l’innalzamento della quota di innovazione nell’economia nazionale.
Questo non avrebbe solo un immediato impatto positivo sulla qualità dell’occupazione, ma renderebbe il mercato italiano più interessante per investitori di rischio internazionali (fondi, società di Venture Capital, Business Angels, Family Office ed altra soggetti) alla ricerca di promettenti attività innovative su cui collocare risorse.
Israele rappresenta da questo punto di vista un esempio di eccellenza a livello mondiale, essendo riuscita a guadagnare un vantaggio competitivo in settori ad alto tasso di innovazione che a loro volta si alimentano attraverso il flusso dall’estero di capitali di rischio.

Fonti
- Organizzazione Mondiale del Commercio
- Ministero dello Sviluppo Economico
- ISTAT
- Agenzia ICE



*Segretario generale della Camera di Commercio Italiana per la Svizzera a Zurigo.