di Fabio Dozio

La Confederazione rilancia il Programma nazionale di prevenzione e lotta alla povertà, ma parallelamente si mettono in pratica politiche di smantellamento dello stato sociale.

Nella ricca Svizzera ci sono molti poveri. Le stime ufficiali rivelano che circa 530 mila persone sono povere. 123 mila di queste lavorano, quindi significa che non ricevono un salario sufficiente per vivere. La “scoperta” di questa piaga in Svizzera è abbastanza recente: la prima conferenza nazionale sulla povertà organizzata nella Confederazione risale al 2003. Solo nel 2010 il Consiglio federale ha definito “la strategia nazionale di lotta alla povertà”.

Non si muore di fame, ma le file davanti ai negozi (Caritas, Tavolino magico, ecc.) che regalano cibi e beni di prima necessità sono sempre più lunghe. Non si dorme per strada, ma coloro che sopravvivono senza alloggio o risiedono in condizioni precarie sono una realtà. Inoltre, la nostra società deve fare i conti con un mondo del lavoro che si va precarizzando: disoccupazione, dumping salariale, tempi parziali imposti, stage non pagati. Si riduce il diritto all’indennità di disoccupazione e aumenta il numero delle persone che beneficiano dell’assistenza.

La Conferenza svizzera delle istituzioni dell’azione sociale (COSAS) stabilisce che la soglia di povertà si situa a 2’219 franchi mensili per persona sola e a 4’031 per un’economia domestica composta da due adulti e due figli. “La povertà – precisa l’Ufficio federale delle assicurazioni sociali - è commisurata anche al tenore di vita della società, ragion per cui occorre considerare pure i bisogni che vanno oltre quelli materiali. Essa interessa tutti gli ambiti della vita, con conseguenze anche sulle prospettive di formazione, sulla salute e sulla sicurezza; spesso causa anche l’esclusione dalla vita sociale e l’isolamento”.

A fine gennaio Caritas svizzera ha dedicato il Forum 2017 al diritto del lavoro, per mettere a fuoco i cambiamenti in corso: “La Svizzera – scrive Caritas – sta vivendo una profonda mutazione strutturale. Il progresso tecnologico fa scomparire posti di lavoro. Interi settori sono delocalizzati; ne nascono di nuovi, che però impongono maggiori sforzi ai dipendenti. Questa evoluzione accelerata aumenta il rischio di disoccupazione, di precarietà, di bassi salari. Tutto ciò non solo colpisce le condizioni di vita dei lavoratori, ma provoca una disintegrazione della coesione sociale”.

Cosa fa la lo Stato per contrastare questa tendenza? In Svizzera, negli ultimi anni, si assiste a una contrazione delle politiche sociali. Lo stato sociale, il welfare, che negli anni del secondo dopoguerra è riuscito a garantire una sicurezza anche alle classi più povere si è indebolito. Gli aiuti e i sussidi diminuiscono e si assiste alla riduzione delle prestazioni. La Caritas svizzera ha lanciato un appello contro lo “smantellamento sociale” inviando una lettera al Consigliere federale Alain Berset: “le misure di risparmio dei cantoni e dei comuni hanno determinato in molti cantoni una riduzione delle prestazioni sociali, per esempio nei sussidi di cassa malati. L’aiuto sociale ha subito una flessione. Il risanamento delle finanze statali non può essere fatto sulle spalle dei poveri, è inconcepibile. Ed è noto che i poveri non possono beneficiare delle riduzioni d’imposte decise in molte regioni”.

La Confederazione, assieme ai Cantoni e ai Comuni, ha lanciato nel 2014 il “Programma nazionale di prevenzione e di lotta alla povertà”, che si sviluppa su diversi settori d’intervento: migliorare le condizioni di educazione e di formazione, integrazione professionale e sociale, aiuto alle famiglie, facilitare l’accesso all’alloggio. Da una parte si lancia una campagna contro la povertà, dall’altra le politiche di risparmio della Confederazione e dei Cantoni penalizzano la socialità.

La ricca Svizzera non può più nascondere la povertà che colpisce una parte dei suoi cittadini, ma le risposte per superare questa piaga sono contradditorie.