Festeggiati a Zurigo i vent’anni del festival della “mela rosa”  di Giovanni Sorge

Si è concluso ad inizio maggio l’ultima edizione del Pink Apple Film Festival, una kermesse cinematografica dedicata alla cultura omosessuale.

Nata nel 1997 a Frauenfed e quindi ampliatasi su Zurigo, il festival della ‘mela rosa’ è cresciuto costantemente, arrivando così a festeggiare – con circa 10.000 spettatori – il suo ventesimo compleanno con un centinaio di proiezioni da tutto il mondo, tavole rotonde e una mostra fotografica.
All’inaugurazione Corinne Mauch, la sindaca di Zurigo che peraltro non fa mistero della propria omosessualità ha speso parole di autentico elogio: un “grosser Gewinn“ per la città non solo “perché Zurigo patrocina i diritti degli LGBT e altre minoranze“, ma anche perché, “tolleranza e apertura nei confronti di donne, minoranze e persone LGBT sono, oggigiorno, conquiste tutt’altro che scontate come invece credevamo fino a poco fa. La LGBT community è presente e non permetterà che il corso della storia faccia retromarcia. Ma l’impegno a favore dell’accettazione e contro ogni forma di discriminazione deve rimanere un compito continuo – nella politica, nella società e anche nel cinema”. Perciò, ha aggiunto, il Pink Apple “è oggi più importante che mai”. È quindi seguito il film d’apertura, il coraggioso (primo) lungometraggio della regista palestinese Maysaloun Hamoud In Between (Bar bahar) che – dal 2016 – ha già girato festival e sale di mezzo globo e racconta le tensioni tra modernità e tradizione di tre ragazze arabo-israeliane a Tel Aviv, e che a Zurigo ha vinto il premio del pubblico.
Il ventennale è stato anche occasione di bilanci e – come vedremo – qualche ammiccamento al passato. “I primi anni - mi dice il cofondatore Roland Loosli - siamo stati piuttosto ignorati dai media e anche dalle istituzioni. Le quali però ora, soprattutto con l’attuale amministrazione, riconoscono l’importanza socioculturale di quest’evento (e speriamo continuino a farlo), perché il cinema, forse più di altri mezzi, contribuisce a far luce sulla condizione delle minoranze – gay ma non solo – in paesi dove i diritti umani sono ancora in embrione”. Tuttavia, continua Loosli, molti media ritengono che “un evento cinematografico di cultura omosessuale qual è il Pink Apple si rivolga esclusivamente a un pubblico gay. Mentre noi non vogliamo alcuna chiusura autocelebrativa, ma favorire il dialogo e l’educazione alla diversità e alla pluralità”.

Momento saliente del festival è stato il tributo alla carriera a Rob Epstein e Jeffrey Friedman, due registi, sceneggiatori e produttori americani il cui lungo sodalizio professionale è stato premiato, tra l’altro, da due premi Oscar e cinque Emmy Awards. Alla retrospettiva loro dedicata hanno presenziato interagendo con un pubblico straordinariamente caloroso. Essa ha incluso il film che inaugurò la prima edizione del Pink Apple, The Celluloid Closet (1995): uno straordinario lavoro selezione di fonti (inframmezzato dai commenti con attori del calibro di Whoopi Goldberg, Susan Sarandon e Tom Hanks) che considera l’evolversi della rappresentazione dell’omosessualità nella grande ‘macchina di sogni’ hollywoodiana; e lo fa attraverso scene da film ormai dimenticati oppure arcinoti (da Der blaue Engel del 1930 a Philadelphia del 1993), mostrando vuoi una movenza inaspettata, vuoi uno sguardo civettuolo o fin troppo eloquente, fino ad arrivare ai nostri giorni, in cui il rischio dello ‚stigma mediatico ancora permane per le (poche) star che fanno coming out (Rupert Everett insegna).
La medesima attenzione per la cultura gay ha portato i Nostri a cimentarsi con tematiche anche ben più toste. Ad esempio Common Threads. Stories from the Quilt nel 1989 portò all’attenzione del grande pubblico il dramma dell’AIDS quando toccava il suo apice, negli anni in cui l’amministrazione Reagan preferiva sorvolare sula gravità dell’epidemia e non pochi sacerdoti negavano la sepoltura a quanti ritenevano colpiti da punizione divina. Così, accompagnati dalla voce narrante di Dustin Hoffman, ci accostiamo alle storie di esistenze prematuramente stroncate e a una stagione lacerata da conseguenze pesantissime a ogni livello. Eppure il film è un inno alla vita: perché, contemporaneamente, racconta del Quilt, un immenso arazzo deposto nel parco National Mall di Washington nel 1987 e composto da lenzuoli, cuciti insieme, contenenti foto, indumenti e pezzi di vita delle vittime dell’AIDS. Riuscendo ad accostare l’incommensurabilità della tragedia all’unicità di quello straordinario rituale collettivo.
La retrospettiva ha inoltre incluso The Times of Harvey Milk (1985) dedicato all’attivista e politico democratico americano freddato nel 1978, insieme al sindaco di San Francisco George Moscone, da un collega psicopatico e devoto: così conferendo alla vicenda (cui Gus Van Sant nel 2008 dedicherà Milk, interpretato da Sean Penn) una risonanza internazionale. Infine, con il documentario Paragraph 175 (l’articolo, abrogato nel 1994, del codice penale tedesco che criminalizzava l’omosessualità) Epstein e Friedman narrano la poco indagata vicenda dell’eccidio di migliaia di omosessuali nei campi di sterminio nazisti; e lo fanno andando a incontrare, insieme allo storico Klaus Müller, i pochissimi, e ormai – nel 2000 – anzianissimi sopravvissuti, che per decenni avevano taciuto il ricordo dell’orrore, di quel male assoluto che li aveva declassati a subumani e cui erano riusciti a sopravvivere.
L’opera di sensibilizzazione sottesa ai lavori di Epstein e Friedman va ben oltre la mera denuncia: ingenera una riflessione di straordinaria profondità. In modo unico, i registi hanno valorizzato il genere documentario, restituendogli il valore più nobile, e talora terapeutico, quello dello storytelling. Così, soprattutto quando muove dal guicciardiniano ”particulare” all’universale (anziché viceversa), il cinema dimostra la sua poliedricità e la sua straordinaria potenzialità, anche didattica.

La presenza italiana

Va infine menzionata l’unica partecipazione italiana di quest’edizione, Due volte genitori di Claudio Cipelletti. Un tributo e un ritorno, anche qui, perché il documentario (del 2009) sui genitori di figli omosessuali aveva ricevuto il premio del pubblico nell’edizione del 2011. È da un lato la storia dell’Agedo (“Associazione genitori di omosessuali"; v. anche www.duevoltegenitori.com) e dall’altro un viaggio – in treno, nelle abitazioni dei protagonisti, e in una lunga, appassionante, spesso divertente ma anche commuovente, nonché liberatoria terapia di gruppo, magistralmente condotta dalla psicoterapeuta, prematuramente scomparsa, Lucia Bonuccelli, insieme a Francesco Pivetta, con genitori di diverse provenienza (da Lecce a Torino!) che si sono trovati di fronte alla novità, sorpresa e, spesso, shock della scoperta dell’omosessualità dei figli. Al coming out in famiglia – che poi non è altro che richiesta di riconoscimento e accettazione – subentra spesso sconcerto, rifiuto, persino disgusto (“se ti schifa pensare che sia lesbica, allora ti faccio schifo io”, ricorda una ragazza di aver detto a sua madre obbligandola così a confrontarsi con le motivazioni, personali e collettive, che le impedivano di accettare la – per lei nuova – realtà). E, soprattutto, un senso di vuoto. Lì per lì molti non sanno a che santo medico o santone votarsi, c’è chi va a staccare le foto del figlio dalla porta della camera, chi sente il terreno mancargli sotto i piedi o chi viene invaso dal senso di colpa per non aver capito, intuito o compreso. In ogni caso, d’un tratto, crolla un mondo. Ma siccome non c’è inizio senza fine – ed è qui che si svela l’azzeccato titolo del film – comincia poi una nuova fase (per tutti) sulla base di un rapporto rinnovato, più onesto, maturo e coraggioso: anche con la società. Con notevole sensibilità Cipelletti riesce a cogliere, grazie a un paziente quanto sapiente lavoro di sintesi, dialoghi e confronti di estrema intensità e di un realismo (meritoriamente opposto ai vanesi, ammorbanti narcisismi dei reality shows), che inducono – chiunque – a riflettere sulla complessità e unicità di ogni individuo, e sull’incalcolabile valore dei rapporti familiari. Non a caso il film è stato premiato nel 2009 come miglior documentario al 23° Festival Mix Milano con la seguente motivazione: “Perché è un viaggio d'amore di figli verso i genitori e di genitori verso i figli, che commuove e diverte nell'arco di una intensa conversazione che resta addosso perché capace di chiamarci tutti in causa, omosessuali e non”. 

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