Giuseppe De Michelis al servizio dell’emigrazione e del commercio italiano

Diplomatici italiani nella Confederazione

Nel ricordare la figura e l’opera di alcuni diplomatici italiani in Svizzera, che, in particolari momenti storici, hanno svolto un importante ruolo nella storia delle relazioni tra i due Paesi, ci occupiamo della figura e dell’opera di Giuseppe De Michelis, che fu, tra l’altro, anche Commissario all’emigrazione nella Confederazione e fondatore della Camera di Commercio Italiana per la Svizzera.




di Tindaro Gatani


Giuseppe De Michelis nacque a Pistoia da Paolo e da Luigia Candia di Gavi. Sulla data di nascita ci sono due versioni, il 6 aprile 1872 (Dizionario Biografico degli Italiani - Enciclopedia Treccani), e il 6 aprile 1875 (Annuario diplomatico del 1931). Agli inizi del 1890 si stabilì sulle rive del Lemano per motivi di studio. A Losanna conseguì la laurea in medicina nel 1901 (dal che se ne può dedurre quale sia la reale data di nascita) e a Ginevra quella in giurisprudenza qualche anno dopo.

Emigrazione e promozione sociale

Sin dal suo primo arrivo in Svizzera, si immerse anima e corpo nel mondo delle comunità italiane locali e, interessandosi alle loro richieste, ne interpretava i bisogni e si faceva loro portavoce. Nell'ottobre del 1894 fondò a Ginevra Il Pensiero italiano, (ottobre 1894 - ottobre 1895), un importante punto di riferimento dei nostri immigrati, che sarà definito da Emanuele Sella, in Emigrazione italiana in Svizzera, Torino, 1899, «il più importante periodico... politico liberale che sia stato pubblicato con simile scopo in Svizzera».
Costretto a chiudere quel suo settimanale per motivi economici, De Michelis non rinunciò alle sue battaglie giuridico-legali e di promozione sociale e culturale dei lavoratori italiani. Dal novembre del 1895 a tutto il 1898, si dedicò a organizzare e a rendere sempre più efficiente la Colonia italiana di Ginevra, una vera e propria istituzione nella Città di Calvino e dei suoi dintorni. Nelle battaglie più impegnative ebbe come amico e collaboratore Antonio Vergnanini, allora segretario dell'Unione socialista di lingua italiana.
A proposito dell'opera svolta dalla Colonia di Ginevra sotto la guida di Vergnanini e di De Michelis, ci illumina una relazione apparsa su la Rivista Popolare, Roma novembre 1898: «La Colonia di Ginevra... poté istituire le Scuole serali per gli adulti; una Biblioteca; un Dispensario gratuito medico-chirurgico; ottenne ribassi nelle Farmacie; impiantò un Ufficio di Conciliazione e uno di Informazioni e Collocamento e istituì anche una modesta Cassa di Beneficenza. Fece funzionare con esito brillante un Ufficio di Consulenza legale, il quale sostenne, in più di duecento cause in un anno, i diritti dei connazionali. Ultimamente furono inaugurate le Cucine e un modesto Asilo notturno, gratuiti».
La Colonia italiana di Ginevra pubblicava anche un Bollettino-guida mensile, distribuito gratuitamente agli iscritti, ai ristoranti e agli alberghi. Di quegli anni sono, fra l'altro, le prime inchieste di De Michelis a favore dei nostri operai impegnati nel traforo del Sempione così come quelle sui fatiscenti alloggi degli immigrati italiani in tutta la Svizzera.
Nel decennio che va dal 1891 al 1900, il numero degli italiani espatriati in Svizzera si era quasi triplicato rispetto al decennio precedente (1881-1890), passando da 71.175 a 189.062. Si tratta di cifre di fonte Istat, che registrano naturalmente solo gli emigrati ufficiali, che non tengono conto, quindi, di quei tanti lavoratori che si spostavano alla ventura senza lasciare traccia. E l'esodo continuò, senza posa, fino a toccare più di 90.000 arrivi in Svizzera nel solo 1913, l'anno record della nostra emigrazione con 872.598 italiani, che lasciarono la patria in cerca di lavoro. Quelli furono anche gli anni più difficili della nostra emigrazione in Argentina, in Brasile, negli Stati Uniti d'America, ma anche in Francia.

Immersione nel mondo dell’emigrazione
Dappertutto si registravano contrasti e lotte allo stesso interno delle nostre comunità. Le esigenze e i problemi avevano portato alla fondazione di molte associazioni, che si occupavano dei vari aspetti della complessa questione emigratoria. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, nella Confederazione, accanto ai socialisti con i loro gruppuscoli dalle sfumature più svariate, c'erano gli anarchici, molto attivi; c'erano i predicatori delle chiese riformate ed evangeliche; c'erano i valdesi; c'erano i missionari cattolici con il loro patronato di assistenza, che seguivano l’insegnamento missionario del vescovo di Cremona Geremia Bonomelli.
C'erano infine anche gli intellettuali venuti dall'Italia per studiare gli emigrati e le loro organizzazioni. Il De Michelis, pur intrattenendo buoni rapporti con tutti, non apparteneva a nessuna di queste categorie. Come sottolinea M. R. Ostuni, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XXXVIII, De Michelis era sì «uno studioso dei problemi dell'emigrazione», ma, a differenza degli altri intellettuali, operava direttamente «sul campo», affrontando di petto tutte le questioni alle quali cercava di trovare la soluzione più appropriata. Per raggiungere i suoi obiettivi non aveva quindi bisogno di far parte di nessun partito e di nessuna chiesa, ma agire per far convergere gli sforzi comuni sui bisogni prioritari dei connazionali che lavoravano in Svizzera. Così, mentre collaborava con il socialista Vergnanini, manteneva una cordiale amicizia con Luigi Einaudi e vantava una buona introduzione negli ambienti non solo radicaleggianti, ma addirittura anche in quelli sovversivi.
Nello stesso tempo godeva la massima stima e la protezione del regio Console generale a Ginevra, il commendatore Luigi Basso, che lo segnalò in più occasioni al Ministero degli Esteri in relazione soprattutto alle sue opere e ai suoi interventi in favore dei nostri emigrati. Fu, infatti, dietro le insistenti segnalazioni del Console generale Basso, che, nel 1902, il Ministero degli Affari Esteri lo nominò Regio Commissario all’emigrazione italiana in Svizzera per conto del CGE (Commissariato Generale dell’Emigrazione), istituito con legge del 31 gennaio 1901, n. 23, per controllare e regolamentare il flusso migratorio dall’Italia verso gli altri Paesi. In quella veste, De Michelis ebbe la possibilità di girare la Confederazione in lungo e in largo per condurre un’accurata indagine sulle condizioni degli emigrati italiani nei vari Cantoni, che, come altrove, accanto alla fama di ottimi lavoratori, si erano fatta anche quella di sovversivi, oziosi e litigiosi, sempre pronti ad usare il coltello per i più futili motivi.
La scelta del CGE non poteva essere più felice. Il De Michelis era, infatti, la persona più indicata per portare a termine con la massima competenza e nel più breve tempo possibile l'incarico affidatogli. Per le sue conoscenze linguistiche, per gli studi compiuti, per gli stretti e ottimi rapporti che da sempre aveva mantenuto con i vari politici e imprenditori svizzeri, ma soprattutto per la preziosa esperienza che, aveva maturato sul campo, era ritenuto già un'autorità in materia. Nel suo rapporto su L’emigrazione italiana nelle Svizzera, un volume di quasi 160 pagine, pubblicato dal MAE nel Bollettino dell’emigrazione, n. 12 del 1903, egli riprende tutti gli argomenti già trattati in Il Pensiero italiano, spaziando su tutti i più gravi problemi che attanagliavano allora i nostri lavoratori nella Confederazione.

Le épaves umane
De Michelis non tralasciava di esaminare anche le conseguenze che lo sfollamento delle campagne italiane avrebbe potuto apportare sull’economia delle varie regioni: «Vi sono coloro i quali – scriveva – considerano, superficialmente, questo sfollamento delle nostre contrade come l'indice tormentoso della miseria. Altri, invece, pensano che esso sia non solo una valvola di sicurezza, la quale serve a mitigare gli effetti della super produzione umana in confronto alla ricchezza attuale del paese, ma vedono in questa massa di italiani, sparsi per il mondo, uno dei mezzi più efficaci per iniziare e agevolare gli scambi commerciali e produttivi colle altre nazioni, e per migliorare le condizioni economiche di alcune regioni del regno».
Contro i danni dello spopolamento delle campagne italiane si stava levando alta anche la voce di Gaetano Salvemini, che, tra l’altro, scriveva: «L'emigrazione è un effetto, non è un rimedio... non rimboschisce i terreni rovinati; non elimina la malaria; non corregge i nostri soffocanti sistemi tributari e doganali; non rende migliori le classi dirigenti». Con il passare degli anni, l'emigrazione era comunque diventata «il rimedio estremo» per coloro i quali non trovavano facilmente aperta in patria «una strada alla propria attività, nella lotta per la vita».
Ciò che allora colpiva di più gli studiosi del fenomeno era l'alta percentuale di «diseredati» e «illusi» tra i nostri emigrati: «L'emigrazione degenerò – notava il De Michelis – poiché tutto l'esercito della miseria, inquinato dall'elemento avariato della delinquenza, si ascrisse nelle sue file». E quanta e quale era la differenza culturale e professionale tra i nostri e gli emigrati degli altri Paesi!
Le altre Nazioni europee mandavano all'estero «una quantità di individui già temprati alla lotta, educati ad un'arte specifica» e attorno a costoro si imperniava «una saggia esportazione commerciale», che dava «ad essi una forza morale pari al vantaggio materiale che da essi ritrae». Gli italiani erano meno istruiti, «troppo poco istruiti, quasi sempre rozzi ed ignoranti». E portavano all'estero «quell'abbandono, quella ruvidezza esterna che è propria dei popoli poco progrediti e mancano di fierezza morale».
I nostri emigrati erano delle vere «épaves» (relitti) umane, «sballottate dai flutti della lotta sociale», alla quale si abbandonavano «senza energia e senza coraggio». Per De Michelis bisognava affrontare il problema alla radice, cioè in Italia, nei paesi di partenza, cambiando innanzitutto il sistema di reclutamento. Si partiva, infatti, alla ventura e con troppa faciloneria. Si davano cose per certe solo per sentito dire. Ci si metteva in cammino verso destinazioni a volte senza nemmeno la cognizione della distanza, delle difficoltà linguistiche, della impossibilità assoluta di trovare lavoro. «Si emigra da noi – notava – troppo sovente, perché il ciclo delle speranze è ormai esausto», in cerca di «fabbriche assetate di lavoratori, distributrici di lauti guadagni», andando così spesso incontro a cocenti delusioni. È così che tanti Italiani emigravano anche in Svizzera, credendo che vi fosse lavoro, «esponendosi senza criteri direttivi, senza una meta determinata e precisa, a cadere nella più spregiata e dolorosa delle miserie».

In giro per il mondo a casaccio
Certamente non tutta la nostra emigrazione era un esercito di avventurieri, infatti, «a lato di questi emigranti a casaccio, purtroppo numerosi», esisteva un contingente migratorio che periodicamente veniva dall'Italia e vi ritornava a epoche fisse, proveniente soprattutto dalla Lombardia, dal Piemonte e dal Veneto. Si trattava di persone che non erano spinte a espatriare dalla miseria, perché erano «operai in condizioni economiche piuttosto buone». Erano emigranti che si recavano in Svizzera a «fare la stagione» per poi ritornare a casa «con un buon gruzzolo di denaro».
Erano operai che costituivano delle squadre scelte alle quali i costruttori affidavano i lavori presi in appalto. Non mancava l'intermediazione degli «ingaggiatori», spesso sorveglianti e sotto-capi, che si recavano in Italia a far incetta di mano d'opera e si facevano cedere un tanto per cento sul salario dei compagni, ai quali procuravano il lavoro. La piaga maggiore era comunque quella degli scrocconi e dei malviventi: «È da deplorare – notava ancora il De Michelis – che frammisti alla emigrazione operaia, vengano i delinquenti a diminuirne il prestigio, a spargere la corruzione fra i buoni elementi, vengano i commercianti falliti a tentare nuova fortuna, quasi sempre ingannando il prossimo, vengano i giocatori ambulanti, i girovaghi di ogni specie...». Così come in Svizzera, gli italiani arrivavano un po' dappertutto. Le cronache dell'epoca sono piene di casi pietosi, di abusi, di soprusi, di scene di miseria e di abbandono della nostra emigrazione. Oltre alle cronache di tanta miseria basta ricordare gli accorati appelli di Emilio Salgari (1863-1911) e di Edmondo De Amicis a far conoscere le tristi condizioni dei viaggi verso l’America.
Grande merito di Giuseppe De Michelis fu anche quello di aver dimostrato, documenti e statistiche alla mano, quanto falsa fosse l’alta incidenza criminale degli emigranti italiani. Del fenomeno molto dannoso per l'immagine che dava del nostro Paese, egli si era occupato sin dai tempi di Il Pensiero italiano. Nella relazione del 1903 egli affronta il problema con estrema competenza e, facendo un'analisi accurata, arriva a conclusioni che poi furono oggetto di studio anche da parte di alcuni ricercatori locali. Sentiamo le sue argomentazioni: tutti parlano della grande criminalità fra i nostri emigranti, come di un fatto acquisito. Appena viene commesso un delitto, un furto oppure un'azione riprovevole, si pensa all'italiano quale autore del misfatto. Purtroppo, sovente, è la verità: l'italiano si trova spinto al reato da vari fattori della delinquenza. L'emigrazione nostra è composta in massima parte di uomini e, quasi totalmente, di operai appartenenti a mestieri grossolani, che richiedono e sviluppano la «forza bruta»; ciò accresce e facilita la spinta alla violenza (un'asserzione allora erroneamente accettata da molti criminalisti, ndr). La povertà di parecchi spiega la frequenza dei piccoli furti: gli indigeni vi ricorrono in minor proporzione, anche per la diversità della condizione economica. De Michelis fece opportunamente rilevare, che si esagerava alquanto, quando si voleva paragonare la criminalità degli italiani immigrati a quella degli svizzeri. Sulla base delle sue capillari ricerche, contestò le conclusioni alle quali erano giunti tanti criminalisti locali.

Emigrazione e criminalità
Partendo dalla constatazione di Emanuele Sella (op. cit.) che la nostra collettività nella Confederazione era formata quasi esclusivamente da operai uomini tra i 20 e i 45 anni, De Michelis arrivò alla conclusione che la percentuale delle condanne subite dagli italiani non poteva essere messa a confronto con la percentuale svizzera, che comprendeva tutte le fasce di età e di sesso e di professione. Questo perché le donne davano una percentuale minore di delitti mentre tra i fanciulli e gli anziani la criminalità era quasi nulla.
C’era poi un’incongruenza che riguardava il rapporto tra censimenti e criminalità. Il censimento della popolazione, con scadenza decennale, allora, come ancora oggi, era fatto sempre a dicembre, quando i nostri operai stagionali avevano già fatto ritorno in patria. Il numero dei delitti era allora spalmato su quelli presenti calcolati per censimento, che erano «di gran lunga inferiori alla realtà, perché raccolte nel mese di dicembre, quando un terzo degli operai, almeno, è già rimpatriato». Mentre, «le cifre della criminalità rispecchiano le condanne di tutto il contingente migratorio dell'anno». Secondo i calcoli del De Michelis la media della delinquenza degli italiani fatta dal criminalista Geoges Roehring sul Journal suisse de statistique per l’anno 1899 era, «nella peggiore ipotesi, superiore di un terzo alla realtà». Perciò «francamente», gli allarmisti avevano torto.
Le tabelle e gli specchietti compilati con certosina attenzione contribuirono a provare, «una volta di più», le esagerazioni sulla pretesa enorme criminalità italiana, anche perché le cifre ufficiali comprendevano i detenuti per qualche giorno per esempio per ubriachezza o disturbo della quiete pubblica, o per misura preventiva, o perché dovevano essere estradati su richiesta dell’Italia, com’era il caso di sospetti anarchici o di gente che aveva commesso delitti in patria.
Il 1903 non fu per Giuseppe De Michelis soltanto l'anno della pubblicazione di L'Emigrazione italiana nella Svizzera, ma anche quello della sua nomina a Regio delegato commerciale onorario a Ginevra e a Cavaliere della Corona d'Italia (30 agosto). La sua attività era volta intanto anche al Paese che lo ospitava, dove conseguiva il secondo premio nel concorso pubblico federale per un lavoro critico circa l'art. 35-bis della Costituzione federale. Sempre da Ginevra aveva, intanto, lanciato una sottoscrizione per la fondazione in Italia di un Istituto sieroterapico; aveva intrapreso una battaglia per l'istruzione obbligatoria e un’altra per migliorare le condizioni economiche e igieniche delle classi agricole in Italia.
Sempre su Il Pensiero italiano si era occupato già di emigrazione come fenomeno promotore di scambi commerciali tra i due Paesi: «Il nostro giornale – scriveva – avrà sempre un'attenzione accurata per il movimento commerciale tra la Svizzera e l'Italia. Movimento che dovrà essere seguito passo passo, attentamente per non lasciar sfuggire ai prodotti nazionali nessuna buona occasione per introdursi sotto aspetto di merci ancora ignorate nella Confederazione o per approfittare dei momenti sfavorevoli ai prodotti di altri paesi per succeder loro o per rimpiazzarli in parte».

Emigrazione e promozione commerciale
L'Italia, facendo tesoro della sua forte emigrazione, poteva sicuramente riuscire meglio di tanti altri Paesi. Ai nostri emigrati andava affidato, infatti, il compito di essere i primi e i migliori ambasciatori per la diffusione e la propaganda dei nostri prodotti sul mercato elvetico: «È un lavoro questo, che dovrà essere facilitato dai nostri connazionali, che sono qui stabiliti e che occupano un posto – anche se modesto – nel commercio, ma che hanno in animo di cooperare al bene della patria nel far conoscere colà quello che nella Svizzera può essere tentato o fatto e per indicare agli svizzeri quello che possono da noi prendere e a noi apportare».
Per alcuni prodotti agricoli e in primo luogo per i vini, il nostro Paese si trovava in un momento particolarmente vantaggioso per poter rimpiazzare in tutto o in parte la Francia, ma anche la Spagna. Bisognava, però, migliorare la qualità, lanciare sul mercato particolari tipi di vini, dare loro un nome, garantirne la genuinità, cioè combattere le adulterazioni e le contraffazioni.
Per migliorare la qualità ecco una proposta concreta di «uno stanziamento di somme per dei premi annui ai viticoltori italiani che fabbricassero un tipo di vino tale da poter essere introdotto all'estero e prender piede». Dai vini il discorso si allargava poi a tutti i prodotti, che l’Italia avrebbe potuto esportare con facilità e quindi con successo. «Per poter arrivare a un buon risultato – ammoniva il de Michelis – non è sufficiente preparare una data merce con sistemi alquanto primitivi e tenerla in magazzino fino a tanto che dal cielo piova la manna sotto forma di un compratore». Ma «occorre anzitutto che il produttore ne perfezioni la lavorazione e come già fu menzionato a proposito dei vini parleremo oggi a titolo d'esempio di un altro prodotto quello delle conserve alimentari, che l'Italia può o potrebbe esportare su vasta scala».
Gli svizzeri erano grandi consumatori di prodotti conservati in scatola e fino ad allora grande fornitrice era stata la Francia. Non sarebbe stato quindi difficile per l'Italia introdursi sul mercato elvetico, anche perché, grazie alla fertilità del suo suolo, poteva disporre di materia prima di qualità assolutamente superiore e a prezzi molto più bassi. Anche dal punto di vista dei contenitori, l'Italia avrebbe potuto produrli a più a buon mercato rispetto alle altre nazioni «a causa della mano d'opera che è retribuita minimamente». E allora perché tanta approssimazione, così «poca accuratezza» e «mancanza di uniformità nella lavorazione» delle nostre industrie? In definitiva erano «piccoli difetti» e di «pochissima importanza», ma deprezzavano «enormemente» la merce. Infatti: «L'eleganza delle scatole, la loro illustrazione, la saldatura, sono un nonnulla che l'industria estera esegue a perfezione perché danno un'apparenza finita e simpatica alla merce, e che da noi si trascura a torto». Poi c'erano «nei» nostri «commercianti delle abitudini e dei pregiudizi» da far sparire al più presto possibile: «In fatto di puntualità, di accuratezza noi facciamo un po' difetto. Siamo, tranne poche eccezioni, abituati ancora alla casalinga, alla campagnola... Il negoziante deve saper trattare differentemente il negoziante estero dal nazionale...».

La Camera di Commercio Italiana per la Svizzera

Per rendere più competitive le nostre merci sui mercati esteri bisognava anche assicurare agli esportatori spese di spedizione e di trasporto agevolate. Offrire loro collegamenti telefonici più moderni, tariffe ferroviarie più favorevoli. Nell'editoriale del n. 3 del Pensiero, il De Michelis, occupandosi, appunto, delle «Tariffe ferroviarie e il commercio italiano», tra l’altro, notava: «In Italia, dove è in attività la tariffa più elevata di tutta l'Europa, fu proposta una diminuzione, ma le società ferroviarie protestarono con tutte le loro forze contro di essa... Sarebbe, è vero, un po' strano che si riuscisse a far capire alle amministrazioni delle ferrovie che è carità di Patria l'aiutare con un po' d'incomodo e magari senza sacrificio l'interesse generale della nazione...».
De Michelis ingaggiò allora una lotta senza quartieri contro tutte le disposizioni arcaiche che regolavano la nostra industria per le quali, per esempio, chi voleva esportare avrebbe dovuto vendere l'intera produzione e tutti i derivati esclusivamente all'estero. Mancavano, insomma, ogni «logica» e ogni «buon senso» per rendere pratica e competitiva la nostra industria. Sugli intralci burocratici, che penalizzavano il commercio italiano, egli tornava con l'editoriale sul Pensiero del 4 novembre 1894. Se la prendeva soprattutto con le «esigenze, quasi mai logiche, della burocrazia», che aggiungeva altri «inciampi» all'esportazione: «È del resto un fenomeno, nel senso intimo della parola, che si riscontra in tutte le manifestazioni della vita nazionale. Non c'è un atto, di minima importanza magari, che da noi vada esente ai capricci della burocrazia». Più scoraggiante era che «pare lo si faccia quasi a bella posta...».
Nonostante le «fisime burocratiche», bisognava, tuttavia, andare avanti lo stesso e promuovere comunque il collocamento delle nostre merci all’estero. L’idea fissa di De Michelis era di creare nella Confederazione un centro di coordinamento per la promozione dei prodotti italiani e l’assistenza a tutti gli esportatori e importatori. Sotto la sua regia nacquero le prime associazioni di negozianti che poi portarono, il 2 maggio 1909, alla fondazione della Camera di Commercio Italiana per la Svizzera della quale Giuseppe De Michelis fu primo Presidente effettivo fino al 18 febbraio 1914, e poi Presidente onorario a vita. La competenza e la preparazione profonda nei più svariati campi, ma soprattutto il suo «dinamismo» e «la sua grande capacità di lavoro», portarono Giuseppe De Michelis a ricoprire contemporaneamente diversi delicati e importanti incarichi. I suoi profondi studi e i suoi vasti interessi spaziavano dall'agricoltura all'economia, dalla medicina al diritto, dal commercio con l'estero alla legislazione internazionale del lavoro, dalla questione sociale al fenomeno dell'emigrazione italiana del mondo, al quale sarebbe rimasto legato per tutta la sua vita.

Dinamismo e grandi capacità
Di De Michelis è, infatti, il Testo unico dei provvedimenti sulla emigrazione e sulla tutela giuridica degli emigranti (r. d. del 13 nov. 1919, n. 2205, convertito poi nella legge n. 473 del 17 aprile 1925). A questo scopo aveva fondato, già nel 1920, l'Istituto nazionale per la colonizzazione e le imprese di lavoro all'estero (INCILE). Si trattava di un progetto che avrebbe dovuto «coinvolgere banche, società di navigazione e rappresentanti della grande industria». L'iniziativa non ebbe tuttavia l'appoggio necessario e sopravvisse solo come «sindacato di studio».
Maggiore fortuna arrise invece all'Istituto nazionale di credito per il lavoro italiano all'estero (ICLE), creato dal De Michelis nel 1923 e prontamente appoggiato da Mussolini, che lo fece dotare di un capitale di 100 milioni di lire. De Michelis, anche da capo del Commissariato Generale dell’Emigrazione (CGE), non si mostrò, tuttavia, mai troppo entusiasta della politica demografica del fascismo, né sempre condivise le scelte africane per l'emigrazione. Le sue prese di posizioni lo portarono quindi a dissapori con lo stesso Mussolini, tanto che ancora non si conoscono nemmeno tutti i retroscena che portarono alla stessa soppressione del CGE, ma di certo non sono estranee certe sue posizioni, che avevano generato critiche e sospetti da parte del regime.
Il De Michelis continuò, tuttavia a occuparsi di emigrazione nell’allora Ufficio Internazionale del Lavoro di Ginevra, odierno I.L.O., dove rappresentò ininterrottamente l’Italia dal 1920 al 1936. Nel 1929 fu nominato senatore del Regno. Da allora ricoprirà incarichi sempre più importanti al Ministero dell'agricoltura, a quello degli Esteri e sarà, tra l'altro, tra i fondatori dell'Istituto internazionale dell'agricoltura (attuale FAO) e delle Linee Aeree Italiane S.p.A.(1946), poi, dal 1947) Alitalia, delle quali fu primo presidente.
Su Giuseppe De Michelis e i suoi rapporti con il fascismo, illuminante è l'affermazione di Dino Grandi nell'intervista, a cura di Gian Giacomo Migone, apparsa postuma sul Corriere della sera del 18, 19 e 20 luglio 1988: «Io – afferma, tra l'altro, il grande "eretico" del fascismo – ho viaggiato per il mondo accompagnato da tre signori: Beneduce [Alberto (1877-1944), fondatore dell’IRI], un antifascista; De Michelis e Alberto Pirelli, anch'essi antifascisti. Non dico questo per farmene un merito, ma perché erano persone intelligenti. E non le dico quello che ha cercato di fare il partito fascista per togliermi questi tre collaboratori. Secondo loro si trattava di tradimento da parte mia». Giuseppe De Michelis, morto a Roma il 14 ottobre 1951, ci ha lasciato molte pubblicazioni e abbondanti documentazioni sui suoi studi e sulle sue ricerche.
Le fonti più importanti sono conservate presso l'Archivio storico-diplomatico del MAE; l'Archivio centrale dello Stato in Roma; l'Archivio dell'Organizzazione internazionale del lavoro di Ginevra. Oltre a quella aggiornata della Ostuni, le altre importanti schede biografiche del De Michelis citate in questo lavoro si trovano in Annuario diplomatico, anno 1931, e in Chi è Chi, (Who’s Who Italy), Roma 1940.

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