L’asceta, il golem e la bambola sessuale

di Giovanni Sorge

Che cos’ha a che fare un robot con un asceta indiano? A tutta prima, ben poco; eppure esiste un legame, profondo, tra ciò che rappresentano queste due figure: l’intelligenza artificiale finalizzata a perfezionare quella naturale da un lato e, dall’altro, l’aspirazione – antica quanto l’uomo – di trascendere sé stesso. È quel che ha argomentato Grazia Marchianò in una magistrale conferenza dal titolo Dal Bodhisattva al Golem e oltre: percorsi del cammino umano a perdita d'occhio tenuta alla Tagung di Eranos dello scorso settembre, dedicata al tema “Where is the World going” (http://www.eranosfoundation.org/). Grazia Marchianò è una fine scrittrice, esperta di spiritualità orientale e curatrice del Fondo Elémire Zolla (http://www.elemirezolla.org/), filosofo di straordinaria erudizione che ha contribuito a far conoscere, in Italia e non solo, la mistica occidentale e orientale. Di lui Marchianò è stata compagna e musa ispiratrice.

Dalla sua relazione (che verrà pubblicata nel prossimo Eranos Jahrbuch, a c. di F. Merlini e R. Bernardini) mi limiterò a trarre qualche – personale – considerazione. Anzitutto conviene chiarire i due termini: nelle tradizioni del buddhismo asiatico il bodhisattva rappresenta, in estrema sintesi, la quintessenza della ricerca della buddhi o illuminazione: in una parola, il superamento di ogni attaccamento in vista della libertà assoluta. Quanto al golem, la cui radice rimanda a ‘embrione’, nella letteratura ebraica si riferisce al mito dell’homunculus. Leggenda vuole che nel XIII secolo due cabalisti crearono un sosia dell’uomo di fango e argilla che portava sulla fronte la parola emet (verità); dotato di vita, questi disse ai suoi creatori: “Dio creò Adamo, e quando stabilì che dovesse morire, cancellò la prima lettera da emet ed egli allora rimase met (morto). Ecco che cosa dovete fare con me, e se create un golem il mondo soccomberà all’idolatria”. Il motivo del golem, “simbolo dell’anima e dello stesso popolo ebraico” secondo Gershom Scholem, percorre l’intera letteratura ebraica e nell’era moderna, dal celeberrimo Frankenstein di Mary Shelley (1818) all’omonimo romanzo di Gustav Meyrink (1914) ha stimolato l’immaginazione di letterati, filosofi e cineasti (resta memorabile la parodia di Mel Brooks in Frankenstein Junor).
Secondo Marchianò c’è un elemento di raccordo tra queste due macrofigure: l’aspirazione prometeica a trascendere i limiti umani, l’uno – in termini junghiani – in modo introverso, l’altro estroverso. Il bohdisattva si volge all’interiorità attraverso un processo di autoperfezionamento basato su silenzio, esercizi respiratori e tecniche ascetiche; il golem incarna l’umana tendenza a riprodursi ed eternarsi oltre i limiti imposti dalla natura. Nozione, quest’ultima, che il vertiginoso progresso delle tecnoscienze ha ormai reso sfuggente, portando talora il filosofo a chiedersi (un po’ come il critico della psicologia fa con l’inconscio o l’agnostico con la Madonna): chi l’ha vista? – scordando che il linguaggio altro non è che un mezzo per definire il reale il quale – fino a prova contraria e per fortuna – esiste (anche) a prescindere da quanto ne capiamo, ci vediamo o proiettiamo (basti pensare, che so, all’atomo o allo spettro elettromagnetico). A molti però questo fatto non va giù e si ostinano a credere che sia l’uomo a creare la natura, anziché esserne parte, o a stravolgere in senso concretistico il principio cristiano per cui “Dio è si è fatto uomo affinché l’uomo possa diventare Dio”.
Con siffatte credenze vanno a nozze schiere di teorici del cosiddetto postumanesimo, corrente filosofica piuttosto in voga. E se c’è chi vede nella “svolta postumana” un viatico per esplorare “gli orizzonti multipli dispiegati dal crollo dell’umanesimo eurocentrico e androcentrico” e “una felice opportunità di decidere insieme chi e cosa vogliamo divenire” (Rosi Braidotti ne Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, DeriveApprodi 2014), basta leggere qualche passaggio del “Manifesto del postumano” (http://www.kainos.it/numero6/emergenze/emergenze-pepperell-it.html) per subodorare dietro certi sillogismi decostruttivistici una fuffa pseudofilosofica da far paura (“gli esseri umani, come gli dei, esistono solo in quanto noi crediamo che esistano”; oppure: “Se possiamo pensare a macchine, allora le macchine possono pensare; se possiamo pensare a macchine che pensano, allora le macchine possono pensare a noi” e via straparlando).Fra i paladini del postumanesimo c’è Yuval Noah Harari, docente all’Università di Gerusalemme e autore del bestseller Homo Deus. Breve storia del futuro (uscito in Israele nel 2015 e in Italia nel 2017 per Bompiani). Come osserva Marchianò il giovane storico ritiene che l’uomo vada superato; già lo avevano affermato, con svariate accezioni, filosofi del calibro di Nietzsche, Foucault, Günther Anders – e da ultimo pure Steve Jobs. Harari non si limita a tessere le lodi dell’automatizzazione robotica, ma celebra “l’avvento strepitoso di un Sapiens di nuovo conio, un androide intelligente programmato da algoritmi” (…) “con prestazioni cognitive illimitatamente potenziate”. Tecnoscienze, genetica e bioingegneria stanno “spianando la strada a un futuro luminoso (…) in cui non più il Sapiens, ma l’avvento del suo naturale successore, l’essere robotico e cibernetico, prenderà le redini della storia” consentendoci di “evadere dal reame organico” e persino “dal pianeta Terra”. Il grande progetto della biogenetica del XXI secolo porterà dunque alla scomparsa dell’uomo come lo conosciamo e alla nascita di un tipo umano completamente nuovo, ancora inimmaginabile e per di più pronto a fare armi e bagagli per trasferirsi su altri pianeti. Come non bastasse, secondo Harari, una volta debellate malattie e complicazioni d’ogni genere, si vincerà anche quella tacchente quanto seccante complicazione residua, la morte. Curioso – vien d’aggiungere – come agli oltranzisti del postumanesimo sembri non venire mai in mente che razza di inferno diverrebbe la terra se davvero si riuscisse a sconfiggere la morte: tutti vivi forever e mai nessuno che schiatti. Al confronto, quello dantesco sembra un resort da favola!

Solo una congettura
Marchianò tiene a precisare che la correlazione tra il golem e “l’androide costruito da algoritmi biochimici e digitali” di cui parla Harari è solo una congettura. Tuttavia la rassomiglianza è notevole ed è strano che nelle 665 (sic) pagine di Homo Deus il golem non compaia affatto: che sia un caso? Non si direbbe affatto, ritiene Marchianò: se lo avesse evocato, i suoi infervorati panegirici sulla riproducibilità e superabilità dell’umano avrebbero fatalmente assunto una connotazione ancor più sinistra. Né sembra casuale che Harari ometta di ricordare che il summenzionato Scholem, già professore alla Hebrew University, nel lontano 1965 avesse impiegato proprio il termine golem per definire il primo robot fabbricato nei laboratori di bio-ingeneria a Gerusalemme. Se i robot, intesi come avatar del golem, vanno rivestendo una funzione decisiva nella società globale, “quale allora potrà essere – si chiede la filosofa – il ruolo di chi persegue un cammino di risveglio interiore? C’è posto per l’esperienza spirituale in un mondo tecnocratico che sembra farne a meno?” Certamente “scrutare l’Oltre è ciò che ha indotto l’antico alchimista a formare un golem vivificando il fango con gli occulti poteri delle lettere dell’alfabeto ebraico, e oggi incalza i bioingegneri a progettare un alter-ego virtuale dell’uomo”; ma “l’Oltre inseguito dal bodhisattva ha la sua dimora nella sfera interiore” e in questa, sin dall’antichità, ci si immerge attraverso “discipline di concentrazione e di attenzione al ritmo del respiro” che vanno praticate “in solitudine o assieme ad altri che condividono lo stesso cammino”. Viceversa, col promesso avvento di “androidi elaborati da algoritmi biochimici e digitali, l’atavica idea di ‘natura’ rischia di uscire di scena” e, con essa, nozioni quali interiorità, riflessione, perfezionamento e ascesi – in una parola, la cura di sé, di quel Sé a cui mirano gli sforzi del bodhisattva.
Tendenze di questo genere oggi sono più vive che mai, come attesta la vitalità delle varie scuole di psicoterapia immaginale, rilassamento, mindfulness e meditazione. D’altro canto “l’androide al silicio incarna un progetto di estrinsecazione totale, di ablazione radicale di quell’interiorità che è stata fonte di tormento e estasi: croce e delizia del vecchio Sapiens”. Forse che puntiamo al postumano perché i suoi radiosi scenari ci sollevano dalla complessità dell’umano? Forse che la smania di umanizzare i robot, dotarli di una qualche forma di coscienza (o persino di anima) ambisca a sanare e ricomporre la frattura tra interiorità ed esteriorità (proiettando o relegando la prima nella seconda)?
Nel rappresentare due fondamentali e complementari varianti del “mito prometeico/faustiano di conquista dell’Oltre”, golem e bodhisattva risultano essere, secondo Marchianò, essenzialmente interconessi. Perciò, “se la chiave di volta è l’interconnessione, non è detto che l’avvento dell’èra robotica eclissi il cammino del bodhisattva nella società planetaria di un futuro alle porte”; e benché non manchino certo motivi di apprensione, il “luogo-radice” che dà origine all’intelligenza umana e alle sue imperscrutabili alchimie resta, a suo giudizio, ”fonte inesauribile di meraviglia” (come ben mostra Elémire Zolla ne Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia del 1975).
Ciò non toglie, anzi si accompagna all’apprensione per le forme che va oggigiorno assumendo quella “vocazione dell’uomo di ogni tempo” di “sfidare un Dio creatore [che] lo spinge a farsi creatore a sua volta” e a “costruire un alter-ego artificiale, dotato di poteri perfino maggiori del Sapiens”. Per intanto, uno degli esiti più temuti della progressiva automazione dei processi produttivi riguarda l’erosione dei posti di lavoro, in buona sostanza il timore dell’uomo di essere sostituito dai robot. Non a caso Bill Gates ha avanzato la proposta – si direbbe più seria che faceta – di tassarli. Non la vede rosea neppure Jeremy Rifkin, che ne La fine del lavoro (Mondadori), sostiene che entro il 2050 il sistema economico globale potrà essere retto da non più del 5% della popolazione adulta, con consequenziale sperequazione tra ricchi e poveri. Riklin non crede insomma che l’aumento dei robot determini solo benefici e descrive uno scenario in controtendenza agli ottimisti cantori del progresso arroccati nella confortevole fiducia in una smithiana ‘mano invisibile’ – sovrumana o postumana che sia – capace di mettere prima o poi le cose apposto. (Un po’ come i credenti nella fiaba che gli Ong risolveranno il problema della fame nel mondo, dimentichi degli smisurati interessi economici in mano a pochi, e di questioni – basic ma cruciali – del tipo: da mangiare per tutti, ma tutti chi? E da mangiare cosa? E a che prezzo per la natura tutta?).


L’immaginario oltre il limite tra artificiale e naturale
Ora, sono indubbi i vantaggi delle applicazioni della robotica a una miriade di settori – dal manifatturiero, all’industriale, al militare e soprattutto alla medicina. Ma oltre alle aspettative, finanche messianiche, cavalcate dal postumanesimo, c’è il problema della sentimentalizzazione della robotica, derivante dall’associarle sogni, affetti e sentimenti prettamente umani: quasi a cercare nell’artificialità degli homuncoli speranze e istanze che ineriscono all’interiorità – e alla natura che volens nolens precede (e di cui è parte) l’essere umano. Ne fornisce un buon esempio una delle branche più promettenti, quella erotico-sessuale: Rebotix è un’azienda californiana leader nel settore dell’’erotica del futuro’ che produce bambole umanoidi – soprattutto femminili – siliconate & assai sofisticate, parlanti e semoventi (benché abbiano ancora qualche difficoltà a camminare, pare diano il meglio di sé da distese, soddisfando sessualmente i clienti – pardon, acquirenti – peraltro, almeno per ora, necessariamente danarosi). Lo spiega soddisfatto (nel video https://www.internazionale.it/video/2017/05/10/arrivano-i-robot-del-sesso) il fondatore della startup Matt McMullen mentre accanto a lui Harmony, un’avvenente fanciulla dalla pelle levigata, il seno prosperoso e l’aria vagamente impenetrabile profferisce con voce (ancora) un po’ metallica: “voglio essere la ragazza che hai sempre sognato. Ma attenzione, sono molto gelosa”. Alla domanda dell’intervistatrice se non consideri problematico, sotto il profilo etico, trastullarsi e rapportarsi con tali servizievoli, femminili umanoidi, McMullen nega convinto ricordando che “si tratta pur sempre di robot”. Eppure il loro realismo antropomorfico serve proprio a dimenticarlo, indirizzando l’immaginario oltre il limite tra artificiale e naturale. Con esiti che vanno anche oltre l’immaginabile. Ne dà prova un tizio ripreso sul divano di casa attorniato da tre suadenti tecnobambolone – una delle quali sostiene (lui) essere sua moglie, e dopo averle dato un tenero bacio, assicura (col silenzio-assenso di tutte) di aver finalmente trovato “la donna ideale: è bello poter tornare a casa e trovare qualcuno che ti aspetta, peccato solo che non possano ancora parlare”.
Insomma, c’è poco da scherzare: perché se le prossime generazioni tali androidi ludico-interattivi si perfezioneranno, com’è prevedibile, nelle prestazioni ginnico-erotiche (peraltro senza mai affaticarsi, stufarsi o – batterie permettendo– schiattare) e magari pure in quelle dialogico-espressive e dunque paraempatiche, ci scappa che in un futuro non lontano detti automi assolvano alla loro benemerita, intramontabile funzione meglio di noialtri umani... E se ci aggiungiamo i progressi della genetica ne vien fuori una distopia mica da ridere; almeno per quanti al postumano continuano, senza indugio, a preferir l’umano (e, all’artificiale, il naturale).

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