Sia carne sia pesce

di Raffaele De Rosa

In italiano l’espressione né carne né pesce si riferisce a qualcosa di negativamente indefinito. Per molti significa anche non avere un’identità culturale e linguistica precisa. Particolarmente soggette a critiche da parte degli insegnanti e degli esperti di formazione scolastica sono le cosiddette lingue “imperfette” usate dalle seconde e terze generazioni di persone di origine straniera. Basta un accento con un’inflessione “esotica”, una struttura della frase particolare, errori grammaticali di vario tipo e un lessico ricco di parole “strane” per condannare in modo quasi inappellabile questo tipo di plurilinguismo. La tesi sostenuta da diversi critici del plurilinguismo è quella che, per essere veramente bilingui/plurilingui, bisogna padroneggiare perfettamente le proprie lingue di riferimento sia a livello orale che a livello scritto esattamente come un parlante monolingue possibilmente altamente istruito.
Anni fa, quando arrivai nella Svizzera tedesca, rimasi particolarmente colpito dall’uso disinvolto dell’Italoschweizerdeutsch da parte di tantissimi italiani nati e vissuti a Nord del Gottardo. Per loro frasi come queste sono normali: Aso ässe isch en ächts Problem für mich (mangiare così è un problema per me), sai cosa si mangia? Mangia solo pasta asciutta e bistecche, was gits (quello che c’è), pasta al sugo e bistecche, die weigeret sich (si rifiuta). Nella mia valutazione di questa lingua speciale applicavo semplicemente i parametri adottati in Italia dove l’uso contemporaneo di diverse varietà linguistiche (la lingua standard, i dialetti, le varietà delle minoranze linguistiche e, oggi, probabilmente le lingue dei nuovi immigrati) non era visto di buon occhio almeno in ambito scolastico.
Tecnicamente l’uso contemporaneo di due o più varietà linguistiche in una frase si chiama commutazione di codice. Essa rappresenta una delle caratteristiche più significative della comunicazione soprattutto di coloro che hanno acquisito due o più lingue in età preadolescenziale. Secondo gli studiosi si tratta di una strategia adottata per affermare, in parte anche inconsapevolmente, la propria speciale identità linguistica e culturale. L’uso di una sola lingua o di più varietà linguistiche contemporaneamente, infatti, non avviene in tutte le situazioni, ma dipende sostanzialmente dalle persone con cui si vuole comunicare, dalle circostanze e dagli argomenti trattati.
È chiaro che la mescolanza di due varietà completamente diverse come per esempio l’italiano e lo svizzero tedesco può suonare alle orecchie di molti puristi come qualcosa che va contro natura, ma forse non bisognerebbe dimenticare che questa strategia è ampiamente adottata anche in Italia o nella Svizzera italiana quando, soprattutto a livello informale, si mescolano tra loro lingua standard e varietà regionali. Spesso il dialetto è usato per enfatizzare certe parti della discussione o per creare una certa confidenza con l’interlocutore. Il giusto dosaggio linguistico dipende naturalmente dall’abilità delle persone nel saper gestire la comunicazione in modo efficace.
Personalmente, da “monolingue” italofono esposto da diversi anni a fenomeni di plurilinguismo, ammiro molto le persone che sono in grado di passare da una varietà linguistica a un’altra anche attraverso la mescolanza lessicale all’interno di una frase. A mio avviso esse sono in grado di essere linguisticamente sia carne sia pesce e, come le figure mitologiche delle sirene o dei tritoni (comuni non solo nella tradizione greca, ma anche in quella di altri antichi popoli europei dove erano percepite benevolmente), possono offrire molti spunti positivi di riflessione ai “comuni mortali” che, invece, seguono parametri di valutazione monolingui (e monoculturali) per formulare i propri giudizi. Fondamentale è in questo senso la nostra volontà nel riconoscere e sostenere, senza pregiudizi, le potenzialità comunicative delle persone che sono in grado di utilizzare contemporaneamente due o più lingue.

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